LA
TIRANNIDE FASCISTA HA RITARDATO LA RESA DEI CONTI
di
Antonio Canepa – da
“La
Sicilia ai Siciliani!”
(1944, firmato con lo pseudonimo di “Mario
Turri”)
Non è una esagerazione dire che, nel 1919, la Sicilia domandò la resa dei conti. Era tempo che si facessero i conti!
Già nel 1900 era accaduto un fatto che nessuno si aspettava. Un professore d’università, esaminando i bilanci dello Stato, aveva scoperto come la Sicilia era stata truffata e sfruttata dal governo italiano.
Egli ebbe il coraggio di dire alta la verità, in un libro che ha per titolo
“Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1897”, e che poi fu di nuovo pubblicato col titolo
“Nord e Sud”. Ebbene, egli disse che nel 1850 il Piemonte era indebitato fino ai capelli, imponeva tasse enormi e tuttavia il suo bilancio restava sempre in deficit. Annettendosi la Sicilia, il Piemonte riversò sulle spalle dei siciliani i suoi debiti, le sue tasse e il suo deficit annuo.
Disse che dal 1860 al 1900 la Sicilia aveva pagato ogni anno (in proporzione della propria ricchezza) più tasse del resto d’Italia.
Disse che dal 1862 il governo italiano si mise a vendere le terre formanti il demanio antico, terre siciliane, dalla cui vendita ricavò 370 milioni!
Disse che dal 1866 il governo italiano cominciò a vendere anche i beni ecclesiastici, che erano ricchissimi in Sicilia, e da questa vendita ricavò più di 600 milioni!
E di tutti questi milioni nemmeno un soldo è stato speso a vantaggio della Sicilia.
Ecco che disse Francesco Saverio Nitti. Giacché era proprio lui lo scienziato leale e giusto di cui parliamo! Ed essendo leale e giusto, ha dovuto subire le persecuzioni del governo fascista.
Nitti non era separatista; e nemmeno era siciliano. Fu Presidente del Consiglio dei Ministri, dopo la guerra. Nitti diceva la verità.
Né era separatista Ettore Ciccotti che nel 1904 denunziava la speculazione bancaria fatta dal governo, “una speculazione poggiata sul vuoto e che assunse le forme di una vera e colossale truffa ai danni della Sicilia”. E aggiungeva: i disgraziati emigranti siciliani pagarono i debiti che il Piemonte aveva contratto prima dell’unità italiana! Né era separatista, anzi era uno sfegatato monarchico, Giustino Fortunato, il quale nel 1916 scriveva: “I milioni dati in premio a un gran numero di fabbriche e di cantieri dell’Alta Italia sono estorti, nella massima parte, alle povere moltitudini del Mezzogiorno”.
Terminata la guerra, dunque, si venne ai conti.
Il 5 dicembre 1919 si apre la grande offensiva parlamentare: l’on. Colajanni interpella il Ministro dell’Interno “sulla necessità ed urgenza di risolvere il problema del latifondo”.
Alcuni giorni dopo, trentacinque deputati siciliani protestano per le condizioni disastrose e intollerabili del servizio ferroviario in Sicilia, tali da determinare un profondo turbamento nell’economia dell’isola.
Il 27 gennaio 1921 l’on. Abisso lamenta il disservizio ferroviario “unicamente inteso a tormentare i viaggiatori, intralciare il commercio e comprimere ogni normale sviluppo di vita civile”; disservizio, aggiunge l’on. D’Ayala il giorno dopo, “che ormai supera i limiti di ogni sopportabilità”. E l’on. Di Cesarò rivela la scandalosa e sistematica depredazione dei bagagli di cui è vittima ogni viaggiatore che dalla Sicilia vada in continente o dal continente venga in Sicilia; ma le autorità ferroviarie si rifiutano di rilasciare ai viaggiatori assicurati i verbali di constatazione di furto!
Il 27 marzo 1922 l’on. Cuomo domanda perché viene destinato al Mezzogiorno “il peggiore materiale di tutta la rete ferroviaria, il rifiuto e lo scarto delle altre linee”.
Nel 1921 l’on. Lombardo Pellegrino reclama provvedimenti a favore della Sicilia: “la più negletta delle regioni meridionali”. E l’on. Cigna spiega che il governo non risolve il problema meridionale
perché gli fa comodo tenerlo insoluto.
Nel febbraio del 1921 l’on. Fulci insorge contro le luride baracche che a Messina ospitano le scuole e aggiunge che, per di più, esse sono così insufficienti da dover fare quattro turni, in modo che i ragazzi stanno in classe soltanto per due ore al giorno.
Il 15 maggio 1922 l’on. Pucci racconta alla Camera: “Il Ministro delle Finanze ha creato a Palermo un ufficio per le trazzere siciliane.
È un ufficio con un’ingegnere che ha il solo tavolo e da parecchi anni non ha fatto proprio nulla. Ed io, che qualche volta mi sono rivolto a lui per certe vertenze relative alle trazzere, mi sono sentito
rispondere: – Non ho che il tavolo e non ho nulla da farvi!”.
In quello stesso maggio l’on. Valentini urla: “Nelle nostre contrade si dice: Ma quel governo il quale per tanti anni non ha saputo risolvere il problema delle bonifiche, non ha curato di regolare i torrenti che impaludano la terra sottraendola alle colture, quel governo che non ci ha dato l’acqua, che non ci ha dato i bacini montani, che non ci ha dato le strade, che insomma non ci ha dato i mezzi per la vita civile, ci viene ora a parlare del latifondo e di colonizzazione interna?”.
Queste erano le parole che venivano fatte in Parlamento prima che Mussolini mettesse la museruola ai vili e mandasse i coraggiosi in carcere o al confino!
E non soltanto alla Camera si urlava. Ma anche fuori. Sui giornali, in piazza, dovunque.
Manfredi De Franchis si faceva promotore a Palermo di un Comitato di azione autonomista.
Antonino Pipitone Cannone fondava una rivista, “La regione”, in cui propugnava gli interessi dell’isola.
Consoli, sindaco di Trecastagni, pubblicava un giornale, “La Sicilia dei
Siciliani”, e organizzava un movimento, detto dell’Unione siciliana, “per protestare contro le tasse ingiuste e i generi alimentari inquinati, per liberare la Sicilia dai ladri, dai truffatori, dagli sfruttatori, e far rinascere in noi isolani la nostra fierezza, i nostri diritti, la nostra ricchezza!”.
Enrico Messineo dirigeva un quindicinale dal titolo “Sicilia Nuova”, “organo autonomista siciliano”, al quale collaboravano le migliori penne siciliane e dalle cui colonne Lucio Tasca Bordonaro lanciò il guanto di sfida: “Io rivendico (scrisse) al popolo di Sicilia l’onore di avere conservato nell’animo la fiamma secolare dell’indipendenza!”. Ecco quel che si preparava. Per incominciare, intanto, nella seduta del 9 agosto 1921, il Consiglio provinciale di Caltanissetta, deliberando a voti unanimi, chiese l’indipendenza doganale della Sicilia!
Ma nel 1922 il fascismo ebbe il potere. Con questo risultato: che la resa dei conti fu rinviata di
vent’anni.
ANTONIO
CANEPA (MARIO TURRI)
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